Ott 11, 2019
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Che cos’è il restauro?

Il restauro, stando alla normativa volontaria vigente, riguarderebbe tutte le attività sull’edificato tutelato, quindi di manutenzione, di riqualificazione, di riuso con manutenzione o con riqualificazione, volte “a mantenere le informazioni contenute nell’edificio e nelle sue parti, l’integrità materiale e ad assicurarne la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali[1].

 

L’ampio e articolato dibattito intorno al tema del restauro e alle sue peculiarità ha fatto emergere, nel tempo, differenze anche significative con problemi e quesiti che, in parte, sono tuttora in attesa di risposte.

Ancora oggi, infatti, i principali studiosi ne hanno proposto definizioni non del tutto convergenti[2].

Amedeo Bellini suggerisce la seguente definizione che, pur senza negare gli importanti principi proposti dagli altri Autori, appare più vicina alla nostra concezione: “Il restauro è l’esecuzione di un progetto di architettura che si applica ad una preesistenza, compie su di essa tutte le operazioni tecniche idonee a conservarne la consistenza materiale, a ridurre tutti i fattori intriseci ed estrinseci di degrado, per consegnarla alla fruizione come strumento di soddisfazione dei bisogni, con le alterazioni strettamente indispensabili, utilizzando studio preventivo e progetto come strumenti d’incremento della conoscenza”.

Sono note le contrapposizioni all’interno della disciplina, che datano oramai da oltre un secolo e mezzo, intorno ai due antitetici termini di restauro e conservazione: pur con le inevitabili semplificazioni, i due concetti coinvolgono aspetti filosofici e storico-critici notevolmente complessi che, a loro volta, motivano atteggiamenti culturali, scelte tecnologiche e operative radicalmente differenti.

Tali concetti sono sostenuti da due ‘culture’ contrapposte.

In breve: il “Restauro” (instaurare, reficere, renovare) si propone di riportare l’oggetto da restaurare (edificio, dipinto, scultura, ecc.) alla sua primitiva immagine. La ricerca ossessiva dell’originale, della primitiva idea dell’artista, ha portato alcuni Autori a proporre l’idea di restauro come di uno stato di perfezione dell’oggetto che potrebbe non essere mai esistito[3]. Esso, in pratica, si pone come opera di ‘rivalutazione’ del bene culturale intervenendo “sui dati dell’immagine per aumentarne il carattere rappresentativo e presuppone l’assurda pretesa di aumentare l’esteticità di un oggetto o di rinnovarla, senza tuttavia sottrarlo al mondo storico del passato[4]. Non si può non constatare, al contrario, come la storia del “restauro”, dall’Ottocento ad oggi, sia la storia dei modi di selezione di oggetti (mobili o immobili) che, per ragioni legate al riconoscimento od al rifiuto dei “valori” che essi erano in grado di esprimere (di uso, estetici, simbolici, economici, emotivi), venivano accantonati, occultati o distrutti ma, anche, restaurati. In tal caso l’operazione consisteva prevalentemente nel selezionare, porre in risalto, ripristinare ciò che veniva giudicato significante, nobile o solamente antico, comunque degno di conservazione in quanto testimone di valori riconosciuti.

Come appare evidente, il tentativo di ritorno all’originale è impossibile. In prima istanza perché è illusoria l’idea di far marciare all’indietro le lancette della storia e poi perché tale intervento, attuato attraverso la manomissione del contesto materico che costituisce l’autenticità stessa dell’oggetto o della fabbrica, non potrà essere altro che una approssimazione, un ‘falso’[5]. Esempi significativi delle pratiche del restauro dalla metà dell’800 ad oggi sono stati, ad esempio, le spoliazioni delle decorazioni barocche su edifici romanici; oppure la realizzazione di completamenti e sostituzioni ‘in stile’; la eliminazione di intonaci sempre su fabbriche medioevali dei quali erano ritenute, in origine, prive; come pure la demolizione di aggiunte (superfetazioni ‘organiche’ e non) stratificate dagli usi e dal tempo.

La “Conservazione”, invece “si fonda sul riconoscimento di un valore, sulla coscienza della sua irriproducibilità e insostituibilità, sulla fiducia che noi abbiamo sulla possibilità di trasmetterlo al futuro, di poterne trarre un insegnamento[6]. La cultura della conservazione, di conseguenza mette indirettamente ma consapevolmente in conto che, dopo un certo numero di secoli, il Bene culturale potrà andare perduto, esso perirà ineluttabilmente come tutte le cose. Questo ‘lutto’ viene, in questo ambito culturale, compreso ed accettato. Il restauro, per contro, con la pratica della continua sostituzione delle parti degradate si propone idealmente la prolungabilità della vita del Bene all’infinito.

 

 

Nell’ambito del restauro, o più coerentemente della conservazione, dunque, non solo il monumento – intenso come emergenza e testimonianza del passato – ma anche tutto il suo contesto, sino a comprendere tutto l’ambiente costruito, è documento, espressione fisica della memoria collettiva, perpetuazione del ricordo, portatore di valori o messaggi di tipo artistico, sociale, religioso, di cultura materiale o tecnologica.

Una rigorosa conservazione dei monumenti/documenti avrà il merito di consentire il maggior numero di interrogazioni possibili. L’oggetto ed il suo contesto diventano, così, testi da leggere, da consultare, dai quali trarre insegnamenti in tutti i loro aspetti, in tutte le loro stratificazioni o aggiunte e come tali devono essere opportunamente conservati e tramandati così che altri ne possano trarre esperienza; da qui il dovere etico della conservazione[7].

Il valore documentale, ma soprattutto morale, della conservazione dei monumenti e del costruito di contesto coinvolge, di riflesso, anche l’architettura moderna alla quale si deve conferire una dimensione ‘storica’, mentre viene sottolineato come il passare del tempo, la vetustà, siano valori di grande portata etica.

 

L’operatività della conservazione, quindi, non può che attualizzarsi attraverso il mantenimento della materia nella sua consistenza e fisicità.

Materia non semplice veicolo di ‘altri’ significati (p.es. artistici o figurativi), ma portatrice e testimone di un messaggio, di un evento, che può essere perpetuato solo attraverso la trasmissione della materia così come essa è giunta sino a noi.

Infatti, non si restaura (o conserva) un’idea, ma la materia che la esprime[8].

In questo contesto culturale, la molteplicità dei dati e delle presenze materiali è accettata nella consapevolezza della relatività del giudizio storico, dalla soggettività del giudizio estetico, dalla parzialità del percorso conoscitivo storiografico che può condurre anche a giudizi di valore gerarchicamente organizzati ma che non si traducono in censura dell’esistente proprio perché non assoluti[9].

 

Dalle considerazioni fin qui addotte appare evidente una propensione a concepire la conservazione come un insieme di procedure finalizzate alla ‘cura’ scrupolosa e attenta dell’esistente.

Il modo e il metodo attraverso i quali è possibile perseguire una effettiva conservazione sono rispettivamente quelli dell’uso e della manutenzione.

È noto come il non-uso provochi un graduale e inarrestabile degrado degli edifici sino alla loro ruderizzazione. Un primo obbiettivo, quindi, sarà quello di riusare tali oggetti o strutture valorizzandone o riattualizzandone la funzione, prima che sia troppo tardi.

Condizione essenziale per un uso coerente con i principi della conservazione sarà quello della compatibilità delle funzioni con le quali si prevede di riutilizzare un determinato oggetto.

L’obiettivo della manutenzione sarà invece quello della prevenzione del degrado (perché sempre il restauro è un intervento “a guasto”) con azioni continue e costanti, a bassa intensità tecnologica.

 

Anche la scelta della conservazione integrale, però, non può essere assunta in termini assoluti o ideologici: si tratta, dunque, di valutare, in una visione complessiva dei problemi, anche questioni quantitative ed economiche, d’uso, di disponibilità di materiali e magisteri.

 

Si può sostenere, in conclusione, che le esigenze conservative possono essere perseguite solo entro i limiti delle possibilità reali in base alle quali tali istanze possono effettivamente trovare possibilità di realizzazione. La stessa istanza conservativa, parte del più complessivo dibattito sviluppatosi intorno al progetto sul costruito, deve confrontarsi con altre legittime istanze che sono costitutive di essenziali principi del vivere sociale e non può prevaricare su di esse pena la sua inefficacia e la collocazione delle sue giuste istanze nell’ambito dell’astrattezza, conducendo alla inoperatività.

Massimizzare la permanenza dei dati materiali, nella consapevolezza di operare in una realtà che è inevitabilmente in continua modificazione, richiede strategie evolutive che potranno essere attuate attraverso continui, provvisori e parziali aggiustamenti.

Il progetto costituisce allora processo metodologico e operativo di regolazione della complessità postulata dall’intervento sull’edificato esistente e dovrà ricercate modalità e metodi coerenti – nel riconoscimento della complessità dei valori e dei significati evidenti o nascosti rappresentati dall’edificio e del suo contesto – per adeguarlo alle attuali esigenze dell’utenza.

Conservare, quindi, è anche selezionare quando ragioni vitali lo impongono, quando l’impossibilità fisica o economica lo renda inevitabile[10] e sarà quindi necessario, nell’operare, rapportarsi alle circostanze, accettandone i relativi condizionamenti, rifiutando, semmai, i rifacimenti in quanto parziali ed infedeli ricostruzioni di quanto perduto.

Parimenti non potranno ritenersi accettabili interventi distruttivi, sostitutivi o ricostruttivi genericamente giustificati da ragioni di natura estetica o storiografica, ma semmai, solamente da motivazioni di tipo “politico”, cioè finalizzati a dare risposte a tutto l’ampio ventaglio di esigenze e bisogni (culturali, sociali, tecnologici, economici, ecc.) espressi dalla Società nel suo complesso, orientati al perseguimento, senza ambiguità, di ciò che un po’ genericamente, ma abbastanza comprensibilmente, si usa definire come “bene comune”.

Sarà un progetto di conservazione, o di manutenzione, (condizionato da vincoli di compatibilità tecnologica con l’esistente) quando il suo prevalente obbiettivo sia di mantenere la consistenza materiale della fabbrica ed il suo aspetto, neutralizzando i fenomeni di degrado.

Nel caso in cui la conservazione integrale non sia possibile per diversi motivi, e quindi si renda necessaria la progettazione di nuovi elementi, apportando nuove qualità, sarà inevitabile misurarsi con un nuovo progetto sull’esistente stratificato: progetto di recupero o di riqualificazione che dovrà trovare nel contesto costruito e nella cultura architettonica gli adeguati linguaggi formali per denotarsi come segno contemporaneo in una opportuna e non necessariamente dissonante continuità. Si apre qui tutto il dibattito che indaga il campo delle possibilità legate alla controversa legittimità dell’aggiunta e della sovrapposizione[11].

Il difficile compito di lettura e di interpretazione dei valori e delle prestazioni ancora offerte dall’edificio, e la definizione dell’entità delle trasformazioni effettivamente necessarie per dare risposte positive alle nuove esigenze espresse, (cioè i sacrifici in termini di perdita di materia e di informazioni), è specifica e ineliminabile responsabilità progettuale, così come lo è la definizione dei limiti di compatibilità tra funzioni da insediare e potenzialità dell’edificio di accoglierle.

[1] UNI 11150-1:2005, punto 3.2.4.; la UNI 10914-1:2001, Qualificazione e controllo del progetto edilizio di interventi di nuova costruzione e di interventi sul costruito. Terminologia, definisce il Restauro come “combinazione di tutte le azioni tecniche, amministrative ed organizzative, incluse le attività analitiche, che intervengono sul costruito tutelato, finalizzate a mantenere le informazioni contenute nell’edificio e nelle sue parti, l’integrità materiale e ad assicurarne la conservazione e la protezione dei suoi valori culturali. Nota: Per costruito tutelato si intende quanto sottoposto alle indicazioni dal testo unico o leggi similari emesse dallo Stato, dalle Regioni e da altre Pubbliche Amministrazioni, e/o leggi ambientali”.

[2] Cfr. in TORSELLO B.P. (a cura di), Che cos’è il restauro. Nove studiosi a confronto, Marsilio, Venezia, 2005.

[3] Cfr. VIOLLET-LE-DUC, Restauration, voce dal Dictionnaire raisonné de l’architecture française, Paris, 1869, vol. VIII, pp. 14-34: traduzione italiana di C. Ceschi, Teoria e storia del restauro, Roma, 1970.

[4] cfr. BELLINI A., “Teorie del restauro e conservazione architettonica”, in: BELLINI A. (a cura di), Tecniche della conservazione, Angeli, Milano, 1986, p. 11

[5] cfr. RUSKIN J., The Seven Lamps of Architecture, 1849, nella traduzione di M. Pivetti per, Jaca Book, Milano, 1981, Aforisma 31, pag. 226-227.

[6] cfr. BELLINI A., op. cit., p. 9

[7] “…la nostra parte sulla terra non l’abbiamo recitata in modo acconcio se la portata di quanto abbiam fatto di utile con pieno intendimento e consapevolezza non include, oltre ai nostri contemporanei, anche quelli che ci succederanno nel nostro pellegrinaggio sulla terra.” Da: RUSKIN J., op. cit., 1849, p. 218. Si veda anche: BELLINI A., Dal restauro alla conservazione: dall’estetica all’etica, in : ANAΓKH, n° 19, 1997, pp. 17-21.

[8]Si restaura solo la materia dell’opera d’arte. Ma i mezzi fisici a cui è affidata la trasmissione dell’immagine, non sono affiancati a questa, sono anzi ad essa coestensivi: non c’è la materia da una parte e l’immagine dall’altra. E tuttavia, per quanto coestensivi all’immagine, non in tutto e per tutto tale coestensività potrà dichiararsi interiormente all’immagine. Una certa parte di codesti mezzi fisici funzionerà da supporto per gli altri ai quali più propriamente è affidata la trasmissione dell’immagine, ancorché questi ne necessitino per ragioni strettamente legate alla sussistenza dell’immagine. Così le fondamenta per un’architettura, la tavola o la tela per una pittura e via dicendo”. BRANDI C., Teoria del restauro, Einaudi, Torino, 1977, p. 7.

[9] BELLINI A., op. cit., 1986.

[10]Non si può conservare se non ciò che si ha a cuore, che si riconosce come parte integrante ed essenziale di un sistema complesso di valori (…) E allora la conseguenza è inesorabile ed è quella che non si può conservare tutto perché è impossibile tutto ricordare (…) è un’illusione storicistica del peggior tipo, è un errore logico, epistemologico, teorico. Si può accatastare tutto, forse (…) in quelli che Bergson chiamava “gli armadi dei ricordi” (…) è la museificazione, cioè la negazione della conservazione, perché è la negazione della memoria attiva e creativa”. Cfr CACCIARI M., Relazione di apertura, in CRISTINELLI G., FORAMITTI V. (a cura di), Il restauro fra identità e autenticità, Marsilio, Venezia, 2000, pag. 13

[11] DEZZI BARDESCHI M., Restauro: punto e a da capo. Frammenti per una (impossibile) teoria, a cura di LOCATELLI V

., Angeli, Milano, 1991. AA.VV., Lacune in Architettura, Atti del Convegno “Scienza e Beni Culturali”, Arcadia Ricerche, Venezia, 1997.

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